martedì 25 giugno 2013

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE, di L.F. Céline

Questo è uno dei rari casi in cui ho infranto la regola per cui i libri li leggo in ordine di acquisto, fumetti esclusi. Ben tre libri sono passati avanti, perché non riuscivo a trovare la forza di volontà di iniziare. Per prima cosa era di dimensioni notevoli.  Poi mi ero creato delle forti aspettative, e ho sempre qualcosa che mi blocca quando devo iniziare un libro che per qualche motivo ho deciso non essere come tutti gli altri a priori. Infine c'era di mezzo il derby. Non potevo presentarmi al derby con un libro in sospeso, un libro che potenzialmente poteva prendermi e darmi da pensare. Così, dopo aver letto solo la postfazione e aver trovato frase interessantissima di Céline, che mi sembra doveroso riportare: "Sono ben rare le donne che non sono essenzialmente vacche o sguattere", l'ho lasciato in un angolo, in attesa del momento adatto.

L'inizio non è stato facile, sia per lo stile pieno di espressioni gergali, costruzioni sintattiche colloquiali e sgrammaticate, sia perché è un completo delirio. Un delirio con una logica dietro, però. Una volta abituati al linguaggio di Céline, si riesce a percepire l'essenza. Un'essenza costituita da disillusione, anarchia e nichilismo, la totale assenza di fiducia nel mondo e nelle istituzioni.
Bardamu, l'alter ego di Céline, ricorda il Leopold Bloom di Joyce. Viaggia, in un contesto enormemente dilatato nello spazio e nel tempo rispetto l'Ulisse: la guerra in trincea, l'Africa coloniale, la catena di montaggio della Ford negli Stati Uniti, la Parigi delle periferie, sbattendoci in faccia la povertà, la tristezza, l'ingiustizia. Ma non c'è nessuna epifania, nessun lieto fine: Bardamu non riesce ad uscire, o forse non vuole, dalla notte. Una celebre frase di Osvaldo Soriano in Triste, Solitario y Final, racchiude perfettamente la vicenda: Noi siamo soli, e il copione ci è contro.
Se dovessi scegliere una parola sola per descrivere questo libro, sceglierei devastante. Tutto il nostro bel mondo, la nostra realtà sembra distorta da uno specchio, sepolta dal malessere e finita a colpi di bestemmie. Il mondo raccontato non sembra il nostro mondo, finché invece non ci rendiamo che invece eravamo noi a voler vedere il mondo con una luce diversa fingendo di ignorare ciò che non ci piace e che non c'è nulla di inventato. Insomma, è un bel calcio nei coglioni. Fa male, molto male leggerlo.
Non è vero! La razza, quel che chiami così, è solo questa grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, che son cascati qui inseguiti da fame, peste, tumori e freddo, arrivati già vinti dai quattro angoli della terra. Potevano mica andare più in là perché c'era il mare. È questa la Francia, questo sono i francesi.
È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre.
 Quando non si ha immaginazione, morire è poca cosa, quando se ne ha, morire è troppo.
Perché nel cervello d'un coglione il pensiero faccia un giro, bisogna che gli capitino un sacco di cose e di molto crudeli.
 Certo, noi siamo abituati ad ammirare ogni giorno dei grandissimi banditi, di cui il mondo intero venera con noi la ricchezza e la cui esistenza si dimostra, non appena la esamini un po' più da vicino, come un lungo crimine rinnovato ogni giorno, ma quelli si godono la gloria, gli onori e il potere, i loro misfatti sono consacrati dalle leggi, mentre per quanto indietro ci si spinga nella storia - e lei sa che sono pagato per conoscerla - tutto ci domostra che un furtarello veniale, e soprattutto di alimenti poveri, come la pagnotta, il prosciutto o il formaggio, attira immancabilmente sull'autore l'obbrobrio formale, la scomunica categorica della comunità, i maggiori castighi, il disonore automatico e la vergogna inespiabile, e questo per due ragioni, anzitutto perché l'autore di tali misfatti è generalmente un povero e questa condizione implica per se stessa un'indegnità fondamentale, e poi perché il suo gesto comporta una sorta di tacito rimprovero verso la comunità.
Non avevo ancora imparato che esistono due umanità molto diverse, quella dei ricchi e quella dei poveri.
La legge, è il grande Luna Park del dolore. Quando il poveraccio si lascia prendere da quella, lo si sente ancora gridare secoli e secoli dopo.
Quando si è giovani, l'indifferenza più arida, le porcate più ciniche, si arriva a trovargli la scusa del capriccio passionale e chissà quale segno di un romanticismo inesperto. Ma più tardi, quando la vita vi ha mostrato per bene tutto quello che può esigere in cautela, crudeltà, malizia soltanto per essere mantenuta bene o male a 37°, ti rendi conto, sei informato, hai le carte in regola per capire tutte le stronzate che contiene un passato. Basta in tutto e per tutto contemplare scrupolosamente se stessi e quel che si è diventati in fatto di schifezza. Niente più mistero, niente più ingenuità, ti sei mangiato tutta la poesia visto che hai vissuto fino a quel momento. È un cazzo fritto, la vita.
Me ne tornavo tutto solo a me stesso, contentissimo d'essere ancora più infelice di prima perché avevo portato nella mia solitudine una nuova ragione d'angoscia e qualcosa che assomigliava a un vero sentimento.
È forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.
 La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.
La  gran fatica dell'esistenza non è forse insomma nient'altro che questo gran darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant'anni o più, per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi. L'incubo di dover sempre presentare come un piccolo ideale universale, un superuomo da mane a sera, il sottouomo zoppicante che ci hanno dato.
Voto: 4,5/5

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