giovedì 1 agosto 2013

IN MONGOLIA IN RETROMARCIA, di M. Zamboni

I libri che parlano di viaggio, per essere interessanti, devono essere il giusto mix tra il fascino della meta e l'evocazione di chi racconta. Perché capirete che un diario di viaggio a Scanzorosciate, con tutta la buona volontà, sarebbe una palla terrificante. Ma d'altra parte non basta andare a Ulan Bator e nel deserto del Gobi. Bisogna saperlo raccontare, e Zamboni ci riesce benissimo.

Quello che si avverte, leggendo il libro, è proprio la senzazione di continuo stupore, di ricerca dell'essenza di quel viaggio, il cui scopo non è solo vedere posti e genti nuove, ma fare propria quell'esperienza diventando un tutt'uno con le persone del luogo, avvicinarsi alle loro usanze e alle loro tradizioni per riuscire in parte a farle proprie.
Oppure semplicemente è stato viaggio che ha colpito profondamente Zamboni e lo ha raccontato a modo suo, molto mistico, come se fosse un'esperienza metafisica. Vallo a sapere.
Sapete riconoscere i vostri sogni? Io sì, i miei. Non li inseguo, ma ho imparato a essere docile con loro, a lasciarmi aperti degli spiragli, e quando arrivano, sempre inavvertiti, mi concedo il lusso di affrontarli: un'attesa è finita, si scopre una carta nuova, di colpo tutto scivola via, semplice, come deciso da sempre.
È l'intensità dello sguardo a qualificare il viaggio, e non il contachilometri.
Ora c'è quello che c'è, a tratti bellissimo, in questa capitale asiatica schizzata tra un imperfetto remoto comunismo, un trapassato nomade futuro, una condizionale modernità.
Ché non c'è meta che valga quanto la sua strada. Non felicità se non nella tensione per raggiungerla. Dove la retta è congiunzione sterile, la via meno fascinosa fra due punti, un percorso troppo arrogante e semplificato che non confonde tracce, non prevede guadi, non pendenze né le frane improvvise.
Penso alla lettera con cui la tv mongola ci ha adescato, promettendoci incontri con popolazioni che mai prima d'ora avevano avuto contatti occidentali, e con i loro sciamani. Sulle popolazioni avevano ragione, ché i ragazzini qua attrono ci guardano straniti come noi guardiamo i loro yak.
Voto: 4/5

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