domenica 27 maggio 2012

IL LIBRO DEGLI ABBRACCI, di E. Galeano

Torniamo al Sudamerica, e ci torniamo con uno dei più grandi scrittori contemporanei, proveniente da un paese tra i meno considerati: l'Uruguay.
Come per Le labbra del tempo e Splendori e miserie del gioco del calcio, si tratta di un insieme di brevi racconti, memorie, aforismi, pensieri, dalle poche righe a qualche pagina. Molto vicino a una raccolta di poesie, senza averne l'evanescenza.
Ho un debole per gli scrittori sudamericani, perché riescono a trasmettere qualcosa che per noi è impossibile descrivere. Diversamente dal Giappone, totalmente diverso da noi, o dagli Stati Uniti, molto simili a noi, nelle pagine di Galeano traspare una duplice anima: da una parte lo scrittore, l'uomo occidentale, che vede il mondo con occhi che potrebbero essere nostri; dall'altra l'americano che ha visto l'atrocità di lunghe e sanguinose dittature nel proprio paese con la connivenza del resto del mondo, che vede il suo paese schiavo economicamente dagli Stati Uniti, che vede la povertà e la miseria oltre alla facciata lustra che si tende a mostrare, spesso chiamata prodotto interno lordo.
Due difetti, da imputare esclusivamente ai miei gusti: un libro fatto in questo modo mi dura troppo poco e non riesce ad appagarmi completamente, come invece ha fatto Le vene aperte dell'America Latina che era molto più discorsivo. Ciò non toglie che resta un'opera di qualità, degno esordio per una serie di letture sudamericane che mi attende.
"Ma babbo", gli disse Joseph piangente. "Se dio non esiste, chi ha creato il mondo?" "Stupido", rispose l'operaio a testa bassa, come chi confida un segreto. "Stupido. Il mondo lo abbiamo fatto noi, noi muratori."
In piena dittatura militare, il principe dei mendicanti cileni era uno che per muovere la gente a compassione diceva: "Sono un civile".
So benissimo che il peccato della carne è assai mal visto in cielo. Ma ho qualche sospetto che Dio condanni ciò che non conosce.
Siamo, ecco il punto, siamo ciò che facciamo per cambiare quello che siamo.
Il colonialismo visibile ti mutila apertamente: ti proibisce di dire, ti proibisce di fare, ti proibisce di essere. Il colonialismo invisibile, viceversa, ti convince che la servitù è il tuo destino e che l'impotenza è nella tua natura. Ti convince che non si può dire, non si può fare, non si può essere.
Buona parte della forza del Che Guevara, quella misteriosa energia che va molto al di là della sua morte e dei suoi errori, proviene, io credo, da un fatto molto semplice: egli fu uno di quei rari individui che dicono ciò pensano e fanno ciò che dicono.
Noi del Rio de la Plata, il cuore lo chiamiamo lo scemo. E non per il fatto che lui si innamora: lo chiamiamo lo scemo per tutto quel suo darsi daffare.
Voto: 4/5

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